Provenza. Sa di buono

Blu, viola, indaco, cobalto, pervinca, lillà. Sfumature di colore che prendono vita quando il vento sfiora i campi di lavanda a Sault, in Provenza. I ciuffi sembrano quasi crescere, alzarsi per poi ritornare giù lentamente. Come un’onda.

Il profumo ti investe pungente, forte. Sa di buono. Di antiche colonie, di biancheria pulita negli armadi, di estati fresche cadenzate dal suono delle cicale.

Le passeggiate tra i campi di lavanda a Sault non hanno tempo, solo spazio. Infinito. Poi raggiungi il paesino coi balconi pieni di fiori e un gatto che si ferma a prendere qualche coccola. Me ne concedo anch’io qualcuna e compro del sapone e del miele.

Le candele le prendo invece nel negozietto che i monaci cistercensi hanno ricreato all’interno dell’abbazia di Sénanque, nel Vaucluse, poco distante. Anche qui lavanda che si perde all’orizzonte e che lascia spazio solo ai campi di grano dorato. Viene raccolta e poi selezionata a Grasse dove i “nasi”, gli esperti di fragranze delle profumerie Galimard e Fragonard, la trasformano in essenze preziose.

60 volte Aix

Lungo la strada che porta a Aix en Provence vedi a perdita d’occhio campi di girasole. Arrivano fin sotto la montagna di Sainte Victoire che Cezanne ha ripreso in sessanta dipinti diversi.

Mi piace pensare che lo fece nel suo piccolo atelier ad Aix, oggi visitabile e dove, pare, sia morto. Ci vedi la tavolozza, bottiglie e ampolle in vetro, vecchie lampade, il cavalletto del maestro. Si dice che cadde a terra col pennello ancora in mano e che fu deposto su un carro pieno di tele dipinte, circondato dall’arte.

Chissà se amava passeggiare lungo Corso Mirabeau di Aix. Forse sì, considerato che il padre aveva aperto proprio qui un negozio di cappelli. Guardo i due atlanti sul portone di palazzo Maurel de Pontèves al 38 di corso Mirabeau. Pare che il proprietario, proprio il conte Mirabeau, fosse famoso in città per essere un gran donnaiolo. “Uragano” lo chiamavano. Ridacchio mangiando un gelato buonissimo. Arrivo sino Place des Herbes. C’è un mercato di fiori, frutta e verdura.

Fa caldo oggi a Aix. Il gelato cola mentre provo a scattare qualche foto tra le bancarelle. Aix en Provence, un orologio astronomico e quaranta fontane. Ce n’è una, la Fontana dell’Acqua Calda, da cui sgorga acqua a 18 gradi. È coperta di muschio fino a terra.

L’acqua a Aix la senti ovunque. Ne senti il gorgoglio allegro che si alterna al chiaccherio della gente che passeggia attraverso un verde tunnel di alberi giù, fino alla fine del corso.

Avignone. Il ponte che non è ponte

Il Palazzo dei Papi a Avignone ha un colore diverso al mattino presto. Austero, grandioso, immenso. I suoi archi e le sue torri sovrastano l’intera piazza. Ti siedi sui gradini esterni e stai lì ad osservarlo con calma. I bar sono ancora chiusi e i tavolini accatastati uno sull’altro. Si è tirata l’alba ieri notte.

Ad Avignone in estate c’è il festival e decine di saltimbanco, clown, prestigiatori e funamboli si esibiscono ad ogni angolo. Il manifesto del festival off è bello tanto quello ufficiale che prevede eventi anche all’interno del palazzo, nelle sale sfarzose ed eleganti dove il papa trasferitosi da Roma vedeva passare cardinali, ambasciatori e pellegrini.

Mimi e menestrelli arrivano fino al ponte Saint Bénézet, il ponte “sospeso”, quello che non arriva all’altra sponda. Durante il festival è facile incontrare un cantastorie che ne racconta la leggenda. Si dice che nel 1177, un giovane pastorello di nome Bénézet udì la voce di un angelo che gli chiedeva di recarsi dal vescovo di Avignone perché gli facesse costruire un ponte sul fiume. Il vescovo non gli diede retta e se ne prese gioco e allora il pastorello sollevò da terra un enorme blocco di marmo con le braccia esili e fu quella la prima pietra con cui il vescovo si decise a costruire il ponte.

Poi il Rodano, parecchio tempo dopo, è passato e se l’è portato via a più riprese. Oggi è famoso perché “ponte a metà”. Il ponte che non è ponte si ferma al centro del fiume ed offre una vista mozzafiato sul Rodano e il Palazzo dei Papi.

La leggenda racconta anche che la pietra originaria sia rimasta lì, nel cuore della struttura portante, forse dove sono incise le parole della canzone che a Avignone tutti conoscono e tutti cantano “Sur le pont d’Avignon, on y danse on y danse” anche al mattino presto, davanti al palazzo dei papi, sulla piazza deserta, sotto gli archi e le torri.

Ore 6. Pétanque

Saint Remy de Provence, la città di Nostradamus.

Pomeriggio inoltrato, su uno spiazzo di terra battuta dal sole di giugno, una boule in mano e la pezzuola per lucidarla, i giocatori di pétanque attendono il loro turno e osservano in che punto esatto la boccia dell’avversario arriva.

Nell’aria solo il brusio ritmico delle cicale.

A pochi passi un café coi tavolini fuori. Ad ogni pausa i giocatori di bocce si avvicinano ai tavolini e mandano giù un sorso di pastis nei bicchieri di vetro ghiacciati. Noi stiamo lì seduti a sgranocchiare patatine e a fare il tifo per l’uno o per l’altro.

Ad ogni pausa mandiamo giù anche noi un sorso di pastis, siamo del gruppo. Paul, uno dei giocatori ride forte guardandomi bere il liquore all’anice alle sei del pomeriggio.

Camargue. Sara la nera

Ogni anno, il 24 maggio, Sara la Nera viene portata in processione sino al mare accompagnata da gitani e nomadi che raggiungono Saintes Maries de la Mer per onorare la statua nera. Raggiungono la battigia e portano Sara sin dentro al mare. Arrivano a piedi, in carrozza, in sella a cavalli bianchi e grigi. Sono centinaia. Si accampano per giorni nelle distese infinite di sabbia della Camargue.

La Camargue è sale e vento. Stagni e canneti che ospitano migliaia di fenicotteri rosa. 80.000 ettari di risaie, saline e acquitrini che puoi attraversare in bici o a cavallo superando le “cabanes”, le antiche cascine dei butteri francesi con il tetto di giunchi e il lato a nord ovest arrotondato per resistere al mistral, il vento di Provenza.

Ci sono tante leggende su Sara. Quella che a me piace di più racconta che la donna arrivò sulle spiagge della Camargue a bordo di una zattera con Maria Salomé e Maria Jacobé, le Maria che hanno dato il nome al piccolo villaggio sul delta del Rodano. Sara aveva la pelle scura e la tradizione vuole che fosse solo la serva di una delle due Maria. E così, delle tre, il popolo Rom ha scelto proprio lei.

Quando la festa finisce, Sara ritorna nella chiesa di Saintes Maries de la Mer, immersa tra le casine bianco-calce del paese.

Ho girovagato tra quelle casine in una assolata giornata di inizio giugno sentendo ancora i violini e le chitarre di canti e di balli, ed il fruscio delle ampie gonne colorate delle gitane dal volto ambrato. Poi, per caso, ho seguito una coppia di donne con le borse cariche di spesa e mi sono ritrovata in un giardino, che con difficoltà definirei un bar, senza insegna e per lo più nascosto dove, tra panni stesi e tavolini di plastica, gente del posto faceva una sosta bevendo birra ghiacciata e pastis.

Ha un sapore strano Saintes Maries de la Mer. Sa di selvaggio, come la foce del Rodano che risali a bordo di piccole imbarcazioni. Riesci a vedere tori solitari che pascolano tranquilli.

In Camargue, ad Arles, ci sono le “courses camarguaises”, un tipo di corrida speciale perché non violenta. Nessuno si fa male, toro compreso. Anche lo scenario è speciale: un’arena romana che ricorda il Colosseo, vicina Place du Forum. Qui la sera i café prendono vita fino a notte fonda e ti ritrovi in un quadro di Van Gogh con i muri incredibilmente gialli ed il cielo incredibilmente blu.

E sotto quel cielo tutto francese ripensi a Sara la Nera, protettrice di tutti gli zingari e nomadi del mondo, e quindi anche un po’ la mia. La vedi in processione scortata da fieri butteri a cavallo, ricoperta con i bigliettini delle suppliche che i fedeli hanno poggiato sulla statua durante la notte precedente. Quando la statua raggiunge l’acqua, i bigliettini si affidano al mare e scompaiono tra le onde.

Come un micio al sole

Dolce far niente. Mi dondolo su un’amaca e aspetto che un soffio di vento arrivi e mi rinfreschi dalla calura di giugno a Bonnieux, in Provenza. Sono al Mas des deux puits, circondata da lavanda e alberi d’ulivo.

Osservo le boccette di ocra che ho acquistato stamattina a Roussillon. Ventiquattro tonalità della polvere delle falesie che circondano il paese con cui sono dipinte le case, le chiese, i negozi. Rossi e arancio che si alternano ai gialli e ai marroni nel corso della giornata e col passare delle ore e del sole.

C’è sempre qualcosa da fare nel Luberon. Puoi andare per mercati, ce n’è uno ogni giorno della settimana in un paesino diverso, e scoprire i morbidi tessuti provenzali, cuscini e copriletti in boutis. Comprare i prodotti creati con la lavanda o assaggiare la pissaladiére, una focaccia buonissima e il banon, il cacio avvolto in foglie di castagno, l’olio d’oliva, le marmellate e la tapenade con olive, acciughe e capperi.

Oppure arrivare a Gordes e goderti una birra ghiacciata al café della piazza centrale, all’ombra dei platani, dopo aver trascorso con pazienza qualche ora nei rigattieri e negozi di antiquariato di Isle sur la Sorgue, passeggiando tra i suoi canali e le grandi ruote in legno ancora in azione.

O magari scoprire che la Siroque, la casa di campagna del film Un’ottima annata esiste davvero e si chiama Chateau La Canorgue. Vi ricordate Russell Crowe che beve rosso in giardino con lo zio? Potete farlo anche voi. I vini prodotti sono buoni e c’è una piccola cantina dove si possono assaggiare.

I libri di Peter Mayle, lo scrittore del romanzo da cui ha preso vita il film con Russell Crowe, mi hanno accompagnata lungo tutto il viaggio in Provenza. Un inglese che si innamora di questa regione e decide di viverci. Nei suoi libri ci scopri i posti segreti a lui cari, i modi di fare, persino il numero di baci, almeno tre, che la gente del posto dà quando si incontra. Sapevate quanti tipi di pastis esistono in Provenza? E che con le melanzane si fa il caviale dei poveri, il “caviar d’aubergine”? Se qualcuno vi dice di volervi dare un cinque sardine, non vi sta proponendo un piatto di pesce ma un sonoro ceffone che vi lascerà le cinque dita in viso.

Mayle ho creduto di vederlo a Lourmarin. Stava al tavolino del café Gaby e si godeva il passeggio in una giornata di mercato. Era davvero lui? Non lo saprò mai  anche se ho provato a seguirlo timidamente. L’ho perso quando un venditore di meloncini mi ha invitato ad assaggiarne un pezzetto. I meloni di Cavaillon sono una specialità della zona, tondi, succosi e simpatici.

Continuo a dondolarmi sull’amaca e a sonnecchiare placida come un micio al sole. Stasera ceniamo al Fournil, un bistrot giù in paese. Dicono che il tramonto dalla sua terrazza sia stupendo.

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