MArRC a Reggio Calabria. Con i Bronzi tanto di più

Il palazzo che lo ospita, Palazzo Piacentini, dal nome dell’architetto che ad inizio Novecento lo ideò pensando a una struttura moderna ispirata ai musei europei dell’epoca, è stato rimesso a nuovo appena qualche anno fa.

Ti accoglie un ampio cortile interno dai colori neutri, il cui tetto, a vetri, lascia filtrare libera la luce lungo tutta l’altezza dell’edificio. Piazza Paolo Orsi si chiama, un omaggio al celebre archeologo trentino che in tanti modi ha contribuito alla creazione del museo. Una piazza che si anima ad ogni evento e in occasione delle mostre temporanee che la occupano a rotazione. Una piazza che accoglie idealmente le genti e le culture che dalla preistoria alla romanizzazione hanno dato forma e vita alla regione Calabria.

Oggi il Museo Archeologico Nazionale, al cuore del centro storico di Reggio Calabria, tra piazza De Nava da un lato e il lungomare Falcomatà dall’altro, è un buon punto di partenza per vivere la città e scoprirne la storia. Un museo aperto al cittadino con una biblioteca da poco inaugurata con venticinquemila volumi su ambiti che spaziano dall’etnologia alla filosofia greca e latina, passando per numismatica e filologia. Testi rari e volumi preziosi e una sala lettura aperta al pubblico a cui sono dedicati anche stage e tirocini. Infine, uno spazio dedicato ed attrezzato per l’intervento sui reperti al piano seminterrato del museo per il restauro e la conservazione dei reperti.

Centinaia di vetrine su quattro livelli. Dalla street art ante litteram ai Bronzi di Riace e Porticello

Il viaggio inizia circa un milione di anni fa al secondo piano, livello A, Preistoria e Protostoria – Età dei Metalli, con le prime tracce lasciate dall’Homo Erectus e due scheletri sepolti insieme che risalgono al Paleolitico e che sono stati rinvenuti nella Grotta del Romito di Papasidero.

Con loro, i nostri antenati che considereremo guide immaginarie, arriveremo idealmente alla sala in cui sono esposti i Bronzi di Riace, tesoro straordinario e identitario del museo, lungo un percorso con un unico comun denominatore: la cultura e l’identità di una regione attraverso l’espressione e le tracce lasciate dai popoli che hanno concorso a definirla.

Come vivevano, pregavano, amavano, si divertivano, persino come le donne amavano farsi belle. Già al livello A, unguenti e trousse per il trucco, gioielli fatti di conchiglie forate, statuine femminili simbolo di fertilità. E poi le prime ceramiche, lame, punte, spatole. Dietro ogni oggetto vita quotidiana, abitudini, persone che sembrano apparire e raccontare la propria storia grazie ai puntuali e numerosi pannelli esplicativi.

E infine esempi di arte rupestre: segni primordiali, iniziali esempi di espressione di idee e pensieri. Un’incisione del Bos Taurus Primigenius su un masso rinvenuta nella Grotta del Romito di Papasidero il cui calco è esposto al museo.

Le forme e le immagini cambiano scendendo al primo piano, livello B e al piano ammezzato, livello C. Siamo idealmente giunti all’VIII secolo a.C. Nascono e diventano sempre più belle le colonie della Magna Grecia. Sibari e Crotone, le più antiche e poi Medma, oggi Rosarno e Hipponion, l’odierna Vibo Valentia, Caulonia, Locri. Ciascuna con le proprie monete, col simbolo del toro con la testa rivolta all’indietro quella di Sibari; col tripode, simbolo dell’oracolo di Apollo a Delfi quella di Crotone.

Accanto una splendida sezione dedicata al teatro, quella sui santuari con le offerte e i modellini di fiori e frutta e i costumi funerari.

Bellissimi i corredi funerari femminili: un contenitore per profumi con le sembianze di una menade danzante e raffinati specchi in bronzo.

E infine la sezione dedicata a Lucani e Brettii con la Casa del Mosaico del II-I secolo a.C., situata presso l’antica Taureana, oggi Palmi, con un letto in bronzo e un mosaico dalle minuscole tessere policrome che creano una scena di caccia. Due cacciatori a cavallo con giavellotti e uno a piedi, che circondano un orso e tre cani che lo attaccano. Alle spalle un albero e un cinghiale. Occupava il centro della sala, anch’esso a mosaico coi toni del bianco e del nero, interamente realizzato con la tecnica dell’opus vermiculatum: piccole tessere  sistemate su un letto di calce a sua volta steso su una lastra di pietra.

Scegline solo tre. Tre tesori all’interno del MArRC

Che la quantità e la qualità di reperti sia notevole è evidente. Centinaia di vetrine disposte su quattro livelli e una storia dietro ogni oggetto. Ad ognuno quello il cui ricordo resterà più vivido e la scoperta più emozionante. Scegliamone tre e partiamo dagli oggetti legati al Santuario di Grotta Caruso, scoperto da Paolo Enrico Arinas nel 1940, vicino Locri.

E’ questo il bello del MArRC: i reperti si animano e raccontano, vasellame e miniature tornano a comporre la coreografia che un tempo era stata ricreata all’interno della grotta per venerare le Ninfe e celebrare i riti iniziatici delle giovani donne locresi prima delle nozze. Immaginate un bacino semicircolare, una struttura di blocchi irregolari a fare da sfondo e un ingegnoso sistema di drenaggio che consentiva il giusto e costante livello dell’acqua e persino zampilli e spruzzi. I doni votivi rinvenuti, modellini in terracotta della grotta e le erme, piccole colonne con le teste delle ninfe poste sopra, completano l’immagine della grotta dentro cui sembra quasi di vedere le fanciulle entrare a passo di danza e scivolare lentamente dentro l’acqua.

La magia torna al piano dedicato al Santuario della Passoliera, scoperto nel 1916 da Paolo Orsi. Colpa di un vigneto, per la costruzione del cui impianto questo splendido santuario vide nuovamente la luce. Siamo a Terzinale, poco lontano dall’antica Kaulonia, tra Monasterace Marina e Punta Stilo. Qui, il grande archeologo identificò il sito i cui resti sono stati disposti nella grande sala in modo da percepirne la maestosità e grandezza di un tempo: i gocciolatoi dalla testa di leone riempiono lo spazio alternando macchie di rosso, nero, argilla.

Per l’ultimo dei tesori scelti occorre tornare al secondo piano ed idealmente all’interno della grotta di Sant’Angelo, cavità carsica  alle spalle del moderno abitato di Cassano Jonio. Qui vivevano genti dedite principalmente all’allevamento e alla pastorizia durante il Neolitico e fino alla tarda età del Bronzo. Ce lo raccontano gli oggetti rinvenuti all’interno tra cui particolare importanza hanno alcuni vasi in ceramica. Cosa hanno di speciale? Appena cinque disegni dipinti e incisi sul fondo, segni elementari che sembrano rimandare a oggetti concreti: una spiga di grano, un triangolo, forse in realtà un monte, una croce, una testa di bue e un elemento vegetale. Si tratta di un marchio riconducibile alla proprietà? O a un simbolo magico rituale? Probabilmente resterà un mistero insoluto. Ciò che è certo che si tratta di idee, concetti semplici o forse complessi, resi attraverso il segno, una traccia, una forma di arte primordiale, espressione ed astrazione della cultura di un popolo.

Le star del museo. I Bronzi di Riace

L’emozione e il brivido di vederli in tutta la loro magnificenza sono innegabili. Ci si aspetta di trovarseli davanti, pregustando il momento, chiedendosi se davvero sono così speciali e l’attesa ripagata.

Lo sono. I Bronzi di Riace, rispettivamente un metro e 98 centimetri uno, un metro e 97 l’altro, entrambi posizionati su un supporto d’alta ingegneria per proteggerli in caso di terremoto, sovrastano il visitatore, ne rapiscono l’attenzione, sembrano voler raccontare la loro storia.

Storia che però nessuno conosce. Infinite le supposizioni, migliaia le pubblicazioni, reportage ed interventi di studiosi, poche certezze. Atleti? Divinità? Eroi? Sono stati volutamente gettati in mare, donati alle onde? O quello stesso mare li ha inghiottiti durante un naufragio?

Ce n’erano solo due? E dove stavano andando quando si inabissarono nelle acque a largo della Calabria? Ciò che sembra certa è la loro provenienza, la Grecia e il periodo in cui vennero plasmati con la tecnica della “fusione a cera persa”, il V secolo a.C.

Un mistero senza tempo che incuriosisce anche chi esperto non è e osserva i due capolavori. Bronzo A e Bronzo B li hanno chiamati per distinguerli durante i lunghi lavori di restauro che ancora più belli hanno reso i muscoli possenti, la pelle nera su cui guizzano vene e arterie, l’acconciatura regale coi riccioli perfetti.

Pasta vitrea per l’iride su calcite bianca, pietra rosa per la fossetta lacrimale, rame per labbra, ciglia e capezzoli.

Appena una spalla ne intravide Stefano Mariottini nell’agosto del 1972 nelle acque cristalline di Riace ad appena 300 metri dalla spiaggia e a non più di 10 metri di profondità. Un recupero epocale le cui immagini hanno fatto il giro del mondo e ancora oggi stupiscono per la partecipazione del popolo calabrese che si riversò in spiaggia per ammirare e dare il benvenuto ai Bronzi di Riace venuti dal mare.

Di sorprese e meraviglie il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria ne ha tante ancora da raccontare. Basterebbe accennare ai Bronzi di Porticello o al Kouros. O forse all’antica necropoli che venne alla luce proprio durante la costruzione del museo e che oggi ne fa parte. A voi scegliere i vostri “tesori” del cuore.