Ho Chi Minh City. E’ la stampa bellezza!

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Quanto è importante la storia presente e passata dei luoghi quando viaggiate?

Di solito lo è sempre, in alcuni casi diventa fondamentale.

Le parole raccontano epoche, fatti, decodificano eventi, traducono realtà.

Le immagini arrivano rapide, cristallizzano momenti, testimoniano verità altrimenti perse per sempre.

Mi trovo all’interno del War Remnants Museum a Ho Chi Minh City, al 28 di Vo Van Tan Street, 3° Distretto. Tre piani, una decina di mostre permanenti e numerose collezioni per testimoniare quanto accadde in Vietnam durante le guerre contro la Francia prima, contro l’America poi. Le prigioni, le torture, gli eccidi, le conseguenze del napalm. Non manca nulla: persino lo spazio esterno è occupato da mezzi corazzati, pezzi d’artiglieria e aerei.

E poi c’è Requiem, la sezione al secondo piano dedicata a chi ha reso possibile questo racconto oggi, chi all’epoca dei fatti ha scelto di esserci come testimone e narratore.

Requiem: un omaggio di chi è tornato a chi non lo ha fatto

72 giornalisti che operarono tra le fila dell’esercito di Ho Chi Minh, 11 in quelle delle truppe di Saigon, 16 reporter americani, 12 francesi, 4 giapponesi, altri dall’Australia, Austria, Inghilterra Germania, Svizzera Singapore e Cambogia.

Sono i 133 professionisti dell’informazione, morti in guerra, le cui immagini danno vita alla mostra Requiem e a cui la stessa è dedicata. Più guerre, un arco temporale che ha radici nell’Ottocento e già guarda alla società moderna della seconda metà del Novecento. Un racconto corale a più voci, ciascuno con un punto di vista diverso, tutte accomunate dallo stesso obiettivo: testimoniare quanto stava accadendo al resto del mondo.

Requiem nasce da un’idea di Tim Page e Horst Faas: Tim Page che appena diciassettenne lascia casa in Inghilterra per raccontare il mondo, considerato uno dei “100 fotografi più influenti di tutti i tempi“; Horst Faas, photo editor per la Associated Press e due volte vincitore del Premio Pulitzer.

Entrambi ce la fanno a lasciare il Vietnam vivi – feriti ma vivi- e insieme riescono a pubblicare un libro – Requiem: by the Photographers who died in Vietnam and Indochina – con le immagini messe insieme in anni di ricerche.

Il libro diventa dapprima mostra itinerante per il mondo poi trova casa, a Ho Chi Minh City.

Robert Capa. Getting closer

Tra i primi fotografi, nelle sale di Requiem, noto subito Robert Capa. Come non farlo.

Ricordo a Madrid l’emozione davanti Il miliziano colpito a morte, la foto scattata in Spagna in trincea durante la Guerra Civile; ripenso a quelle dello sbarco degli americani in Sicilia durante la Seconda Guerra Mondiale, all’incontro con Camilleri ragazzino mentre, nella Valle dei Templi, teneva la macchina fotografica come una mitragliatrice e sparava scatti a raffica.

Il reporter ungherese costretto a lasciare la Germania nazista per le origini ebraiche, l’uomo che immortalò personaggi come Picasso e Hemingway, il fondatore della Magnum Photos che raccontò cinque diversi conflitti mondiali, morì in Vietnam il 25 maggio del 1954. “Se la foto non è buona, non siete andati abbastanza vicini” sosteneva.

Gli ultimi scatti di Capa li trovate alla Requiem Exibition accanto al racconto degli ultimi momenti narrati da John Mecklin, corrispondente di Life con lui in Indocina.

Con lui ci sono Sawada Kyoichi, corrispondente dal Giappone col tesserino che sembra nuovo in bella mostra; Luong Nghia Dung, insegnante vietnamita che assai poco sapeva di fotografia e che dopo un breve corso, diventò uno dei fotografi di guerra più prolifici; Bernard Fall, Henri Huet, Robert Ellison, Pham Van Khuong, Vo Vanh Quy, Sean Flynn.

Ho ancora davanti l’immagine di Georgette Louise Meyer coi suoi occhiali sofisticati e la pelle chiara, in arte Dickey Chapelle, dal Wisconsin, morta a 47 anni vicino Chu Lai. Infine il grande Larry Burrows, il fotografo di LIFE che portò coi suoi scatti la guerra del Vietnam nel salotto degli americani.

“And so often I wonder weather it is my right to capitalize, as I feel, so often, on the grief of others. But then I justify, in my own particular thoughts, by feeling that I can contribute a little to the understanding of what others are going through; then there is a reason for doing it”.

Immagini e parole. Dal nono piano del Caravelle

Sono le otto quando arrivo al Caravelle, l’ora perfetta per un buon aperitivo sui tetti della vecchia Saigon. In realtà sono pochi i tetti che vedo da qui, non di certo quelli dei tanti grattacieli che illuminati al neon svettano oggi nel cielo di Ho Chi Minh City.

Eppure, da qui, in quello che oggi è un moderno e accogliente albergo in centro città, giornalisti come Tiziano Terzani hanno raccontato la guerra del Vietnam.

C’è uno splendido articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 14 marzo 1976, ad un anno dalla conquista della capitale sudvietnamita da parte dell’esercito del Nord. Racconta di quei giorni momento per momento: le sagome scure che fino all’alba sparivano dentro gli ultimi elicotteri che lasciavano la città dal tetto dell’ambasciata americana, le migliaia di soldati che “si toglievano i cinturoni, le giacche, le scarpe, gli elmetti e rimanevano in mutande, scalzi, con le teste rapate; la gente dalle finestre buttava loro vecchi calzoni, camicie, le strade deserte che improvvisamente si animavano con grandi bandiere del Fronte di Liberazione”.

Caravelle Saigon
Caravelle Saigon

Terzani non era il solo a frequentare il Caravelle, tutta la stampa lo faceva, come sede delle ambasciate australiana e neozelandese e degli uffici dei giornalisti stranieri. Si cenava a lume di candela serviti da camerieri in giacca e farfalla nera persino nei momenti di maggiore tensione. Non abbandonarono il Caravelle neanche quando, nel l’agosto del 1964 una bomba esplose al quinto piano. Da qui, probabilmente, ogni giorno, partivano le notizie che si trasformavano nei titoli di giornali e notiziari di tutto il mondo.

Non era la prima volta. Dall’altro lato della strada del Caravelle

Continental Saigon
Continental Saigon

Non era la prima volta. Appena dall’altro lato della strada del Caravelle, nelle stanze del Continental, tanta storia è passata, tanta storia è stata raccontata. Protagonisti ancora una volta giornalisti e scrittori, che per decenni hanno animato questo albergo oggi sfavillante come ieri.

Inizialmente Rue 16, si trasformò in rue Catinat nel 1865 e nel 1878 vede apparire i primi tre blocchi del famoso hotel voluti da Pierre Cazeau. Ad inizio secolo la proprietà passò al Duca di Montpensier e nel 1930 a Mathieu Franchini a cui seguì Philippe Franchini. Il Continental non chiuse mai, neanche nei momenti peggiori se non nel 1975 e solo per un anno.

Il Time e l’Herald Tribune avevano i loro uffici qui fino al 1975. Radio Catinat lo chiamavano durante la guerra d’Indocina, punto di incontro per cronisti, uomini d’affari e politici che desideravano capire cosa stesse realmente accadendo.

Qui hanno soggiornato personaggi del calibro di André Malraux, l’autore de “La Condition Humaine”, Rabindranath Tagore, il poeta indiano.

Dalle pagine dei romanzi di Graham Greene che al Continental creò i personaggi di “Un Americano tranquillo”, abbiamo in parte capito la Saigon degli anni Cinquanta. Romanzo prima, cult movie del 2002, una storia d’amore, una finestra sulla crisi politica di quegli anni e del graduale coinvolgimento degli americani che portò al disastro bellico.

Ancora storia, ancora cronaca, ancora umanità.

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