Il caso ha voluto che le mani su quelle foto ce le mettesse lui, John Maloof. Magari sarebbero finite nella spazzatura e nessuno avrebbe saputo chi era Vivian Maier, un’americana qualunque. Invece quelle foto Maloof se l’è guardate una ad una, con lo stupore di chi comprende di aver scoperto un tesoro.
Solo una parte delle migliaia di foto scattate da Vivian in una vita intera, custodite insieme ad altri pezzi di vita dentro un garage. Lei è già anziana quando il contenuto del garage, di cui da tempo non paga più l’affitto, va all’asta. Morirà due anni dopo a seguito di un banale incidente. Storie di vita come tante. Storie di gente qualunque.
Storia di una donna che per una vita intera fa la bambinaia e mentre accudisce i figli degli altri osserva il mondo attorno con la sua macchina fotografica al collo. Non è un’artista, non ne frequenta i luoghi, non mostra il suo lavoro. Si limita a custodirlo ed accumularlo nel tempo. E’ una donna con una passione grande per la fotografia, una passione per sè.
Dopo l’iniziale scoperta Maloof va in cerca di altro materiale, altre foto, altri pezzi di vita che possano portarlo all’autore, all’artista geniale che ha raccontato coi suoi scatti un pezzo d’America. Ci vorranno anni per riuscire a raccontare chi era Vivian Maier e mostrare al mondo il suo lavoro.
Oggi una mostra a Catania presso la Fondazione Puglisi Cosentino. “Vivian Maier. Una fotografa ritrovata”. Un’occasione per dare una sbirciata al mondo della Maier. Solo 120 foto attraverso cui riesci a immaginare Vivian per strada, al mare, a bordo di un bus, affacciata ad una finestra. Vivian affamata di vita, di storie, di dettagli.
Fotografa operai, ricche donne, bambini, un uomo che dorme, una coppia che parla fitto ad un tavolo tenendosi per mano. Cattura col suo obiettivo attimi di vita, la vita degli altri. Sullo sfondo l’America degli anni ’50 e poi ’60, ’70. E’ come pescare in una borsa di Mary Poppins senza fondo. E’ come sfogliare le copertine del The Saturday Evening Post disegnate da Norman Rockwell, arricchite ad ogni click da un vestito, un piatto in tavola, una pubblicità. Scorci di New York, Chicago, i luoghi dove ha vissuto. Sembra non bastarle mai.
Nella moltitudine di anime – 120mila negativi, video 8 e 16mm, pellicole mai sviluppate – che attraversano la lente della sua Rolleiflex, ogni tanto appare lei, Vivian. Sfrutta specchi ed altre superfici riflettenti per catturare la sua immagine in un gioco di ombre e luci: una donna col viso acqua e sapone, senza trucco, alta, un donnone, quasi ingombrante. Eppure invisibile agli occhi dei più che lei osserva e riesce a raccontare in un flash.
L’amica con cui vado alla mostra a Catania mi fa notare che nei suoi “autoscatti” Vivian Maier non sorride mai, è seria, quasi imbronciata. Forse è vero, non sorride. Lo fa a modo suo dico io. Come nello scatto in cui immortala la sua ombra grande e sgraziata su un prato di margherite gialle. O nella smorfia di una ragazzina coi lacrimoni che la fissa, sfottente, e sembra dire “va bene, non è andata come volevo, ma sai che ti dico, io la vita me la vivo lo stesso a modo mio”. Con tutta la passione che posso, aggiungo io. E tanta curiosità per chi e cosa ho attorno.